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A #Brescia e ai #bresciani …

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A #Brescia e ai #bresciani …

A#Bresciae ai#bresciani

Sono bresciano. Ci tengo a dirlo subito. D’acchito. Della mia città, Brescia, pensavo di conoscere tutto o quasi. La storia, la geografica, la gente. Imperdonabile errore! Invece non appena preso carta e penna ecco le prime paure, le prime remore, le prime dimenticanze.
Che grande atto di superbia pensare di conoscere una città, anche se ti ha dato i natali! Brescia, come quasi tutte le altre città della nostra bella Italia, è un concentrato di storia, di umanità, di gente laboriosa.
Un noto umorista affermava che la storia è un condensato di disgrazie. Forse è vero. Ma la tua città è anche il luogo privilegiato della tua anima. Per questo non è facile parlarne. Perché in fondo di tratta di parlare di se stessi, delle proprie radici. E solo Dio sa quanto sia difficile!
Tenterò di farlo a ruota libera, sullo stile “Va’ dove ti porta il cuore” , sperando di onorarla e farla apprezzare al lettore nella giusta luce e misura che merita.
Alcuni mesi fa un’insegnante di mia conoscenza, chiese ai suoi alunni di disegnare il simbolo della città. Secondo la loro visione, naturalmente.
La maggioranza degli alunni disegnò il Crystal Palace, il grattacielo di Brescia che domina a sud la città intera.
Il Palazzo della Loggia, la statua che rappresenta la “Vittoria Alata” e la Leonessa che appare sul gonfalone del Comune e della Provincia, furono relegati in ordine decrescente. Un inequivocabile segno del tempo che passa.
A ben pensarci era però prevedibile. Il Crystal Palace, “monumento” alla Brescia economica, con le vetrate grigio-blu dai mutevoli colori a seconda delle ore del giorno e delle stagioni non poteva non colpire la fantasia dei ragazzi.
Come pure la graziosa fontana posta a lato del Crystal Palace
Per la verità devo ammettere che un suo fascino particolare il grattacielo ce
l’ha. Lo intuii un pomeriggio di novembre di alcuni anni fa quando, ammirando il panorama cittadino dalla sommità del Castello sul colle Cidneo, lo vidi sbucare dalle brume di una insistente cortina di nebbia che gravava sulla città. Sembrava un oggetto posato sulla terra dagli alieni!
Chi arriva da sud, non può certo non notare questa costruzione. Ma se lo stupito spettatore si avvicinerà alla città, sempre da sud, al calar della sera, saranno le luci splendide poste sui Ronchi a lasciarlo senza fiato. In tutte le stagioni l’impatto è immediato. Quelle luci sembrano provenire da un immenso alveare.
Estesa in una luminosa conca ai margini delle Prealpi, la città di Brescia segna il limite della zona piana. Ai suoi lati e alle sue spalle, infatti, il territorio comincia a ondularsi. Sale sempre più e, alla fine, alternando valli profonde ed alti monti, si perde verso nord in vette altissime e ammantate di nevi eterne.
Non lasciatevi ingannare dal nome ruvido di “Ronchi”. Nel dialetto bresciano “”roncare” viene usato per identificare una persona che russa. Ma nella lingua italiana il termine è invece la voce onomatopeica del rumore che fa la sega sul legno. Dunque i Ronchi, oggi splendide e dolci colline a nord-est della città, erano un tempo preziosa miniera di legna per il riscaldamento. Un pò più su ecco il Monte Maddalena, un tempo riserva di pollame, verdure e frutta. Castagne comprese.
Questi prodotti influenzarono notevolmente la gastronomia locale, che si industrializzò ad inventare una serie di ricette dai nomi curiosi. Per esempio la “Mariconda”, una minestra a base di palline di pane raffermo, uova, grana, burro e carne di pollo. Vanto della cucina bresciana è però il “coniglio alla bresciana” appunto, insaporito con erbe, spezie e limone. Senza poi scordare gli stufati e gli stracotti, da dimenticare per ore sulle stufe a legna. Giusto per risparmiare!
Il Cidneo, il colle su cui svetta il vecchio Mastio Visconteo (il Castello), è oggi sede del Museo dei Risorgimento, del Museo delle Armi, oltre che avere una sala adibita a plastico ferroviario per la gioia di grandi e piccini. Quì sorse il primo nucleo abitato di Brescia.
Alcuni fanno risalire la sua fondazione, fin dalla prima cinta, al mitico Ercole. Altri invece propendono per Troe, fuggito da Troia in fiamme. Con lui la città avrebbe assunto il nome di Altilia, cioè l’altra Ilio, l’antico nome di Troia. Altri ancora, i più coraggiosi, scomodano perfino il nome di Tiras, nipote di Noè, oppure Ciano, il re dei Liguri. Da qui il nome Cidneo dato al colle che sovrasta la città che ben si connette dunque al grande re dei Liguri.

Il poeta Ovidio, nelle sue Metamoforsi, ne fa appunto cenno.
Ma, come ricorda Catullo nel un suo noto verso “Brixia Cycneae supposita speculae”, la città divenne capoluogo dei Cenomani durante l’occupazione dei gallica nel IV secolo avanti Cristo.
La città dal colle Cidneo si ampliò sulle sue pendici orientali (dove oggi ci sono i Ronchi). Nel III secolo avanti Cristo arrivarono, grazie alla amichevoli relazioni con i Cenomani, i Romani. Brixia ebbe dal Senato romano un trattamento di favore rispetto alle altre città galliche. Fu esentata dai tributi, trattenne le armi ed anche le proprie leggi. Addirittura durante il consolato di Cesare ottenne l’”Ius civitatis optimo iure”. In pratica i suoi cittadini vennero parificati ai cittadini romani, con un ordinamento municipale che aveva come base il diritto romano.
Ma è nei primi secoli dell’Impero che la nostra città, con l’imperatore Augusto, che raggiunse il suo massimo splendore. Un tale splendore che l’imperatore nominò la città di Brescia “Colonia Augusta civica”!
Sontuose le costruzioni di quel periodo come il Foro, la Curia ed il Teatro. Alto e solenne, pur con le sue colonne mozzate, sta il tempio di Vespasiano. La cerchia delle mura romane, ai piedi del colle Cidneo, sono ancora ben visibili.
Devastata dalle invasioni barbariche, la città risorse sotto il dominio dei Longobardi. Anche se qualche burlone bresciano ha scritto a questo proposito che: ”Intorno al 570 arrivano a Brescia i Longobardi. Di sicuro qualcosa di positivo ci tramandarono: i loro spiedi”.
La storia non ci racconta se siano stati veramente i Longobardi a portarci lo spiedo. Ma senza alcun dubbio questo piatto è il più rappresentativo della cucina bresciana. La sua ricetta? Per la verità ce ne sono più d’una. Quella valligiana pretende che lo spiedo sia composto esclusivamente da uccellini spennati, ma non sventrati, sui quali viene fatto colare in modo uniforme il burro sciolto nella leccarda.
Un’altra ricetta, meglio conosciuta come “osèi scapàcc” (con la doppia “c” dolce) vuole che il burro sciolto venga pennellato di tanto in tanto sugli uccellini (pochi) e lombo (in quantità) che girano lentamente sullo spiedo. Da quì il termine “uccelli scappati”!
Aborrita dai buongustai c’è una terza ricetta che vuole lo spiedo composto da pezzi di pollo, coniglio, salamine…
Desiderio, re Longobardo di cui rimane la famosa croce, vero gioiello di legno e pietre preziose ora parte del “tesoro di Santa Giulia”, è
noto ai bresciani per aver dato in sposa a Carlo Magno la figlia Ermengarda.

La giovane verrà però ripudiata dopo un solo anno di matrimonio.
Tornerà a Brescia per morire di crepacuore nel monastero di San Salvatore.
San Salvatore e Santa Giulia: due nomi per indicare la medesima costruzione. Più antico il primo complesso, trasformato poi con l’arrivo delle spoglie di Santa Giulia in monastero.
La storia di Brescia è piena di uomini famosi, martiri ed eroi. Da Tebaldo Brusato ad Arnaldo da Brescia, da Niccolò Tartaglia a Tito Speri, per citarne solo alcuni. Personaggi capaci di trasgredire, di non farsi sottomettere, anche a costo della vita, alle tirannie del Barbarossa, ai signori delle città vicine, ai francesi ed agli austriaci.
Brescia città di donne fiere e coraggiose, come Brigida Avogadro. Nel 1438 la città era assediata dalle truppe milanesi del Piccinino. Brigida, alla testa di un gruppo di donne agguerrite, respinse l’assalto di un intero battaglione nemico. Forse la Leonessa che campeggia sul gonfalone cittadino vuol ricordare, oltre all’annessione alla
Serenissima città di Venezia, il carattere del popolo bresciano. Donne comprese.
Un popolo orgoglioso e sdegnoso, “risoluto come il suo dialetto, che ha l’asprezza del masso stagliato dal monte”, affermava il giornalista Bruno Marini. Ma leale, aperto, pronto se necessario alla lotta.
Basta passeggiare nel centro storico per rendersene conto. Ammirando gli edifici romanici dell’età comunale, il Broletto, la torre del Popolo, la Rotonda del Duomo, o il contrastante barocco del Duomo Nuovo, par ancor di sentir tuonare la voce di Arnaldo contro la corruzione imperante nella Chiesa di quel tempo.
Pochi passi più in là, ed ecco il magnifico centro rinascimentale, con lo stupendo Palazzo Loggia, oggi sede del comune della città, a farla da padrone.
Nel 1575 la cupola di piombo della Loggia fuse per un violento incendio. Passerà del tempo prima che ritorni all’antico splendore, nella sua inedita ed accattivante forma odierna di una carena di una nave rovesciata.
Sul lato orientale della splendida piazza, ecco l’orologio de i “Macc de le ure” a scandire il tempo inesorabile che passa e va. Splendida opera di Paolo Gennari da Rezzato, venne quì collocato nel lontano 1546.

Come a San Marco a Venezia, due figure di bronzo battono le ore. I bresciani li hanno ribattezzati con il nome affettuoso di “Tone e Batista”.
Matti non sono, ma “maci” forse sì. Vale a dire uomini forti. Si dice che siano il ricordo di una breve dominazione spagnola.
La vicina Piazza della Vittoria era (oggi lo è un po’ di meno) il centro degli affari. Col torrione del Palazzo delle Assicurazioni, il palazzo delle Poste e il pulpito da cui, in tempi non lontani, Mussolini parlò al popolo bresciano, la piazza è in perfetto stile littorio, disegnata con rude eleganza negli anni andati, dall’architetto Piacentini. In questa piazza ogni anno è di scena la Mille Miglia, la “corsa automobilistica più bella del mondo”, come la definì un giorno il grande Enzo Ferrari.
In verità oggi la manifestazione automobilistica è una splendida passerella di
macchine meravigliose, che ogni anno attraversano le contrade della nostra bella Italia. Con partenza da Brescia, naturalmente.
I bresciani, non certo facili ad innamorarsi dei personaggi, sono però particolarmente affezionati a due santi che fanno parte della storia della città: Faustino e Giovita. Narra la leggenda che i due respinsero con le mani le palle di cannone sparate contro la città dai soldati dei Visconti, al comando di Niccolò Piccinino. Per questo episodio sì meritarono l’onore di diventare i santi patroni di Brescia.
La santità veramente può fare miracoli. Ne volete una prova? Sotto la volta di porta Bruciata, alla fine dei portici in direzione nord, c’è la minuscola chiesa di Santa Rita, già S. Faustino in riposo. Il nome deriva da un episodio invero curioso. Durante il trasporto delle spoglie di San Faustino nell’attuale omonima chiesa, dalle ossa del martire ecco stillare alcune gocce di sangue.
Storia, leggenda? Che importa. San Faustino, insieme al suo compagno Giovita, sono i grandi patroni di questa incredibile e ancora non completamente conosciuta ed apprezzata città italiana. Tanto poco conosciuta nel mondo, salvo che per il tondino, le armi e la Mille Miglia, che vorrei saper padroneggiare la mia lingua per poter scrivere in versi le sue bellezze. Ma per far questo dovrei avere le capacità di Veronica Gambara e Cesare Arici.
Per decantarla avrei dovuto ereditare la maestria di scrivere madrigali come Luca Marenzio o suonare il pianoforte come Arturo Benedetti Michelangeli.
Potrei imparare a dipingere, ecco. Ma, penso, che lo abbiano già fatto magnificamente celebrati artisti come Foppa, Savoldo, Paglia, Romanino, il Moretto…

Che posso fare per far conoscere al mondo Brescia e la sua brescianità, visto che faccio il pasticcere ed ho una buona conoscenza del cibo, dolce e salato che sia? Semplice. Mi soffermerò sulla storia dell’alimentazione bresciana.
Ma, forse, sarebbe meglio parlare di storia della fame bresciana, di carestie e pestilenze che, nel corso dei secoli, hanno fiaccato gli stomaci e determinato la sorte dei suoi abitanti.
Per secoli il cibo per antonomasia, almeno per larghe fasce di popolazione, è stata la polenta. “La pareva, nella faccia, un pentolino di grigia polenta”’: così Galeazzo dagli Orzi descrive la sua “Massera da Bè”, cioè la brava massaia, indicando anche chiaramente quale fosse nel Cinquecento l’alimento più popolare. Per dura necessità, naturalmente: polenta grigia, a base di cereali poveri. La logica conseguenza di una così povera alimentazione? La pellagra, classica malattia dovuta alla carenza di vitamine e proteine. Le verzure dei Ronchi, il pollame e i conigli della bassa bresciana erano appannaggio dei soliti noti: nobili, preti e commercianti.
Il popolo aspettava le feste, o qualche particolare ricorrenza, per una sana autentica abbuffata. Solo in queste occasione il burro, uscito fresco dalla zàngola, condiva i ravioli di carne con burro e salvia: i famosi “casonsèi”.
Di questo splendido piatto esistono diverse versioni per quanto riguarda il ripieno; questo a secondo della zona della provincia.
Ricordo una signora della Valle Camonica che, addirittura, tritava nell’impasto un paio di semi di pesca messi precedentemente ad essiccare al sole, incurante del fatto che fossero (per la verità solo in grandi quantità) velenosi e quindi sconsigliabili.
Ma una piccola dose della mistura rendeva più saporito il tutto. Che fosse una reminescenza del tempo che fu, quando i signorotti assumevano giornalmente alcune piccole dosi di veleno, come antidoto a probabili tentativi di avvelenamento da parte dei sudditi?
Ma non erano solo i “casonsei” ad avere il ripieno. Anche la gallina spesso nascondeva al suo interno un ripieno gustoso e saporito dal nome curioso: “empiom”.
Lo spiedo, altro piatto forte della brescianità, era invece un tempo indicato nelle feste non religiose. Alla fine del pranzo qualche cubetto di “persicata” ed una fetta di “bussolà”concludeva degnamente il convivio.
Il bussolà, o bossolà, è ritenuto il dolce tradizionale bresciano. Ha la forma della ciambella con il buco, ed è preparato con uova, burro e farina, oltre ad essere ben lievitato. Il suo nome deriverebbe, secondo alcuni, dal latino “buccella”, ovvero: boccone, pane. In tempi più recenti, anche se fatto derivare sempre dal latino “buccellatum”, assumerebbe il significato di biscotto o galletta.

Ma la derivazione più antica, e sicuramente più accreditata, farebbe risalire l’origine del nome al mondo celtico. Il termine, infatti, deriverebbe da “bés ‘mbesolàt”, ovvero serpente attorcigliato. Quella del serpente attorcigliato è un’immagine presente in numerose tradizioni e leggende della nostra città e provincia. Talmente presente che, a secondo del luogo, viene identificato il serpente con nomi come “basilisco”, ovvero piccolo re, “divin biscio”, “bès galilì”, ecc. Animale il serpente che, come noto, con la sua simpologia evoca la ciclicità del tempo. In ultima analisi simboleggia l’eternità.
Il gesuita Francesco Antonio Zaccaria ci tramanda una leggenda secondo la quale Desiderio, non ancora re, avrebbe avuto una sorta di profetico annuncio della sua futura ascesa al trono grazie ad un singolare incontro con un serpente!
Ecco dunque per il nostro “bussolà”, con la sua forma perfettamente rotonda, assurgere a simbolo di perenne rinascita. Soprattutto durante il periodo natalizio, quando il vecchio anno lascia posto al nuovo ed il dolce bresciano entra in tutte le case.
Iginio Massari

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