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IL TRONCHETTO DI NATALE…

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IL TRONCHETTO DI NATALE…

IL TRONCHETTO DI NATALE

Per il filosofo greco Anassagora gli alberi erano animali, animali fissati sulla terra, per il poeta indiano Tagore lo sforzo infinito della Terra per parlare al cielo. Da sempre ogni albero porta con sé simboli, immagini, sogni dell’uomo. Rappresenta la vita nella sua continua evoluzione, soprattutto se ha foglie caduche, poiché si spoglia e si riveste ogni anno. L’albero mette da sempre in comunicazione i tre mondi: quello sotterraneo per via delle radici che affondano in profondità, quello in superficie per il tronco e i primi rami e il cielo per la sua verticalità. Riunisce, inoltre, tutti gli elementi vitali: l’acqua che circola con la linfa, la terra che si integra al suo corpo attraverso le radici, l’aria che nutre le sue foglie, il fuoco che si sprigiona sfregandone il legno.

Nessuna meraviglia quindi se fu oggetto di venerazione fin dall’antichità, soprattutto dalle popolazioni del Nord, in terre dai boschi senza fine. Quello a cui noi siamo forse simbolicamente più affezionati, anche perché sa un po’ di fiaba e un po’ di magia, è senz’altro l’albero di Natale. La sua “invenzione” pare si debba addirittura a Martin Lutero, che lo avrebbe ideato vedendo brillare, alla luce delle stelle dei fiocchi di neve e dei ghiaccioli su di un abete, giusto la notte di Natale.
Ancor prima di allora però, il “verde” era già molto utilizzato al Nord: si ricorreva, infatti, agli arbusti di alloro per addobbare le botteghe e le case, mentre per le cerimonie comparivano l’agrifoglio e il vischio. Il biancospino, che butta i germogli a Natale per smettere a Pasqua, pareva invece seguire il percorso terreno di Gesù. E poi i rametti di ginepro venivano appesi a protezione delle stalle…
Ancor oggi, nelle nostre campagne, c’è chi attribuisce a queste antiche usanze, dei poteri propiziatori. Un tempo, fra i contadini, era abitudine
andare a letto presto, all’imbrunire. E allora, senza il conforto del fuoco che scoppiettava nel camino, diffondendo luce e calore, la veglia di Natale, in attesa di recarsi alla Messa di mezzanotte, sarebbe parsa davvero interminabile. Nella legnaia, perciò, ogni anno veniva conservato per l’occasione un ceppo: un grosso pezzo di tronco, meglio se di castagno oppure di quercia, tagliato da un albero abbattuto. E possibilmente alla base, nel suo punto più grosso, lasciando pure qualche sporgenza legnosa di radice.
E chi ne era sprovvisto? Nessun problema, scrive Lancellotti, perché “il giorno della Vigilia, sotto le logge del Mercato Nuovo a Firenze, si teneva il mercatino del ceppo. Tutta la loggia era un luccichio di trofei lignei variopinti, rivestiti d’oro e d’argento, splendenti di candeline, e animata dal viavai dei genitori”. Tant’è che in Toscana, e non solo lì, il Natale è riconosciuto anche come la “Pasqua di ceppo”.
Spettava comunque al padre il diritto di mettere il ceppo nel camino, la sera della Vigilia, alla presenza dell’intera famiglia. In un rituale che richiamava quello della Messa, veniva poi benedetto con un segno di croce e asperso di vino rosso, badando bene che non si spegnesse in quanto gli spettava anche il compito, ovviamente simbolico, di riscaldare il Bambin Gesù. L’aspettativa generale era che quel grande ceppo durasse fino a Capodanno, meglio ancora fino all’Epifania.

Un’usanza in qualche modo comune a tutta l’Italia, era quella di dare, e lo faceva a turno ogni membro della famiglia, un colpo di molla sulla brace del ceppo. Se le scintille salivano numerose verso la cappa, l’anno nuovo avrebbe dato buoni frutti.

In Basilicata lo chiamano U cippone, in Emilia diventa zoch ed Nadel, nel Veneto è il sopo: sempre ceppo è. O zocco, o ciocco che sia. Da quello di legno destinato a riscaldare e allietare la notte di Natale, si è arrivati con fantasia al dolce goloso, degno complemento del panettone: è il tronchetto, che riproduce il più fedelmente possibile la forma nodosa di un tronco vero.

Forse più di altri questo dolce è meglio acquistarlo già pronto in pasticceria perché, pur avendo come base una normale pasta-biscotto arrotolata, guarnirlo invece in maniera suggestiva, tanto da farlo sembrare davvero (o quasi) un pezzo di legno, richiede una certa abilità. Se ci si rivolge a una pasticceria artigianale si è inoltre sicuri di ottenere non solo una maggior varietà nella decorazione, ma anche sul piano del sapore.
Così, dall’abilità del pasticcere, ecco nascere la versione “classica”: in legno scuro, con striature longitudinali a conferirgli una nota di verticalità, ma anche una certa rugosità. A quel simbolico pezzo di albero grande e saggio e ospitale, affideremo, prima del fatidico taglio, i nostri pensieri o le nostre speranze.

Se abbiamo invece in mente un Natale “da cartolina’, un po’ infantile, sceglieremo il tronchetto candido, per quel velo di zucchero spruzzato a mo’ d’impalpabile e silenziosa nevicata notturna che ha ovattato anche il piccolo villaggio in marzapane. Abbiamo l’energia della giovinezza? Allora in pasticceria ci attende il tronchetto con la corteccia a scaglie chiare disposte in un vivace disordine geometrico mentre, all’interno, scorre la linfa verde della pasta al pistacchio.
C’è pure la versione alla meringa, alle nocciole, alle spezie, al marzapane … basta guardare e chiedere, al massimo prenotare.
Con un certo anticipo, però, quando non è ancora iniziata l’ultima frenetica corsa all’acquisto natalizio.
Forse anche per questo, oltre che per la difficoltà della decorazione, i francesi per i quali il tronchetto, la Bûche de Noël , è il tipico dolce di Natale, ricorrono sempre più spesso a versioni surgelate, pratiche, da comperare e riporre in freezer in anticipo.
Anche i Tedeschi hanno un dolce di ispirazione analoga: si chiama Baumkuchen, praticamente è un “dolce albero”. Ma non mi risulta che in Germania si ricorra a versioni surgelate e, se è davvero così, tanto meglio. Preferisco pensare a un Natale pensato e preparato per tempo, nell’intimità d’una casa ravvivata dal chiarore e dal calore di un ceppo, scelto molti mesi prima, che arde nel camino.

Iginio Massari - Facebook

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